08 11 2021
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Nel mondo del lavoro la pandemia ha portato alla rivoluzione dello smart working. Ma cosa accadrà nel new normal? Il nostro modo di lavorare è cambiato per sempre? Se ne è parlato oggi a un convegno organizzato dal Politecnico di Milano.
Umberto Bertelè del PoliMi ha ricordato che la parola smart working è nata proprio al Politecnico di Milano e ha descritto il contesto internazionale. “Le grandi aziende come Google vanno sempre di più verso il lavoro agile da remoto – ha detto Bertelè – Siamo in una fase in cui si ripensano gli uffici, che diventano luoghi di incontro diversi da prima”.
Negli Stati Uniti, PwC ha già deciso di consentire a 40mila dipendenti di lavorare da remoto anche dopo la pandemia, mentre Amazon ha optato per una soluzione ibrida che cambia a seconda delle esigenze. Nelle grandi città si assiste anche alla nascita della formula del coworking.
I dati del lavoro da remoto
Mariano Corso del Politecnico di Milano ha presentato i dati di una ricerca. Nel 2019, le persone che in Italia lavoravano in smart working erano 570.000 e nel primo trimestre del 2020 si è registrato un balzo in avanti a 6.580.000, con un incremento del 1.054%. Il dato è poi passato a 5.060.000 nel terzo trimestre 2020, 5.370.000 nei primi tre mesi del 2021, 4.710.000 nel secondo trimestre e 4.070.00 nel terzo trimestre.
La riprogettazione degli spazi
Alessandra Gangai del Politecnico di Milano ha sottolineato che durante la pandemia lo smart working ha riguardato il 100% delle grandi imprese, il 98% della pubblica amministrazione e il 62% delle Pmi. Il 65% delle aziende più grandi considera il progetto smart working ormai strutturale.
Quali sono gli aspetti che limitano l’adozione dello smart working nelle imprese di maggiori dimensioni? Soprattutto tre:
- la mancanza di una cultura basata sui risultati;
- le resistenze dei capi;
- alcuni ruoli incompatibili con lo smart working.
Nelle Pmi emergono processi non digitalizzati e anche mancanza di interesse, mentre nella pubblica amministrazione si aggiunge il timore di un peggioramento delle prestazioni lavorative.
“L’80% delle organizzazioni hanno modificato o stanno valutando una riprogettazione degli spazi – ha detto Alessandra Gangai – Il 32% ha concluso la riprogettazione in almeno una sede e il 23% lo ha avviato”.
Il miglioramento del work-life balance
Qual è stato l’impatto del lavoro da remoto per le grandi imprese? L’89% ha riscontrato un miglioramento del work-life balance, il 59% dell’efficienza del lavoro e il 58% dell’efficacia.
Nelle Pmi l’impatto positivo del work-life balance scende al 55%, mentre emergono maggiori criticità per engagement e comunicazione tra colleghi. Le piccole medie imprese sono inoltre le uniche realtà in cui si dichiara anche un peggioramento dell’efficacia e dell’efficienza, mentre nelle grandi si riscontra un miglioramento in entrambi gli aspetti.
“In generale, bisogna valutare bene in ciascuna organizzazione tutti gli aspetti positivi e negativi per trovare le soluzioni migliori”, ha concluso Alessandra Gangai.
Il punto di vista dei lavoratori
Dora Caronia Angitta del Politecnico di Milano ha presentato i dati relativi al punto di vista dei lavoratori, che con lo smart working hanno riscontrato un miglioramento di qualità della vita (41%), work-life balance (39%), efficienza del lavoro (38%) ed efficacia (35%).
“Chi non ha potuto lavorare da remoto vede in positivo la comunicazione tra i colleghi, più critiche qualità della vita e work-life balance – ha spiegato Dora Caronia Angitta – Gli smart worker hanno percepito miglioramenti su tutte le voci degli aspetti lavorativi rispetto ad altri lavoratori”.
La pandemia ha permesso ai lavoratori di migliorare le digital soft skills per il 42% degli smart worker e il 25% degli altri lavoratori. Il contesto ibrido ha facilitato l’apprendimento di nuove skills in maniera diretta o indiretta, ma ha avuto un impatto negativo in termini di engagement dei lavoratori.
“La pandemia ha accentuato anche l’overworking, nel 13% dei casi, e il tecnostress nel 25% – ha concluso Dora Caronia Angitta – Ma non bisogna incorrere nell’errore di attribuire al lavoro da remoto criticità che derivano, invece, dal contesto pandemico generale”.
Il modello di lavoro dopo la pandemia
Cosa accadrà al termine dell’emergenza? L’esperienza acquisita in questo anno e mezzo è stata preziosa per lo sviluppo dello smart working delle grandi imprese e nel 39% delle Pmi, ma una piccola azienda su tre lo abbandonerà.
Dopo la pandemia le grandi imprese prevedono circa quattro giorni di smart working alla settimana subito e tre in prospettiva futura. Un dato, quest’ultimo, che coincide con il desiderio degli smart worker.
Nella pubblica amministrazione si scende a 3,6 giorni alla settimana di lavoro agile subito e, in prospettiva, due giorni a settimana.
Secondo Rita Zampieri del Politecnico di Milano le azioni future per promuovere un uso efficace dello smart working sono:
- sottoscrizione di accordi individuali;
- aggiornamento della definizione della policy;
- revisione del processo di performance management;
- formazione su cultura e stili di leadership;
- ripensamento degli spazi di lavoro;
- tecnologie digitali potenziate per lavorare fuori sede.
I benefici per la società e l’ambiente
Dallo studio del Politecnico di Milano emerge che in futuro il 14% dei lavoratori tornerà in presenza, il 33% continuerà a lavorare da remoto e il 53% avrà una situazione ibrida. Nei prossimi mesi sono previsti 4.380.000 smart worker.
“Lo smart working crea benefici e opportunità per una società più giusta e inclusiva, in particolare per il supporto alla genitorialità e l’inclusione di persone che vivono in luoghi distanti dal posto di lavoro – ha concluso Mariano Corso – C’è poi anche l’aspetto ambientale: l’applicazione del lavoro a distanza per una media di 2,5 giorni a settimana si traduce in un risparmio annuo di 1.450 euro per ogni persona che si reca al lavoro in auto, 1,8 milioni di tonnellate di Co2 e 123 ore di commuting per ogni lavoratore”.
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