17 04 2023
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Viviamo in un’era caratterizzata dall’acronimo Vuca, che significa Volatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity. Cosa fare? Per progettare il futuro si può ricorrere al design thinking, che consiste in un approccio all’innovazione basato sulla capacità di risolvere problemi complessi con una visione e una gestione creativa.
In passato era soprattutto un approccio all’innovazione adottato da agenzie e studi di design, ma oggi la sua diffusione riguarda settori molto diversi. In questo scenario, il design thinking diventa sempre più un valido modello di sviluppo per affrontare le sfide della trasformazione digitale in corso.
Se ne è parlato venerdì scorso al convegno “Imaging and crafting desirable futures”, organizzato dal Politecnico di Milano.
Collaborare con l’AI
“Bisogna occuparsi e preoccuparsi del futuro – ha detto Beatrice D’Ippolito dell’University of York – Aspetti fondamentali sono la capacità d’innovazione e di gestire le tecnologie. Non dobbiamo pensare, ad esempio, che l’intelligenza artificiale possa ‘rubarci’ il lavoro, ma imparare a collaborare con questa novità”.
Secondo Beatrice D’Ippolito avere uno sguardo al futuro significa, a volte, avere anche il coraggio di fare un salto nel buio. Un esempio è la BBC, che in dieci anni ha saputo trasformarsi ed essere all’avanguardia nelle piattaforme digitali di news. È un’azienda che non ha mai smesso di credere nell’importanza della ricerca e sviluppo, che ha saputo anticipare e dettare la traiettoria di sviluppo della tecnologia. Bisogna saper cambiare, ma senza dimenticare le proprie radici, il proprio passato.
La nascita del future thinking
“Occorre pensare che gli impatti che si possono avere nel lungo periodo. Nell’ambito della sostenibilità si pensi, ad esempio, al tempo di cui ha bisogno un albero per crescere – ha spiegato Luca Simeone dell’Aalborg University – Oggi il design thinking esiste a diversi livelli, ma sempre più spesso si parla ormai di future thinking, che consente di pensare al futuro in maniera strutturata, utilizzando approcci, metodi e tecniche per generare valore attraverso l’esplorazione dei futuri alternativi. In un certo senso il future thinking è il nuovo design thinking e implica grandi responsabilità e anche dei rischi”.
Per Simeone, nel futuro ci aspetta un grande cambiamento dello stile di vita dovuto ai cambiamenti climatici e questo potrebbe non piacere a molti. Ma in un momento di grandi sperimentazioni come quello che viviamo si potranno inventare nuovi metodi per recuperare speranza e ottimismo.
L’importanza di etica e valori
Durante la tavola rotonda, Daniela Manuello di Poste Italiane ha sottolineato che bisogna imparare a lavorare con l’AI e che nelle relazioni con la macchina, come tra gli uomini, bisogna sempre basarsi su etica e solidi valori.
La designer Camilla Mignani ha detto che l’artificial intelligence è utile, ma non potrà sostituire la creatività, l’empatia, la capacità di creare community e generare emozioni dell’essere umano. Il futuro va progettato desiderabile e il design thinking può essere utile per evitare scenari distopici.
“In un contesto Vuca bisogna essere proattivi e assumersi la responsabilità di quello che si progetta pensando alle generazioni che verranno dopo di noi”, ha commentato Claudio Dell’Era del Politecnico di Milano.
La valigia del futuro
In un’ipotetica valigia da portare nel futuro cosa bisognerebbe mettere? “La visione del designer, ma senza l’idea che sia l’unica possibile – ha risposto Giulia Spagnoli di Kpmg – Bisogna sempre ricordarsi che non esiste un’unica soluzione, ma diverse possibili”.
Per Andrea Donadel di Assist Digital è indispensabile la passione, che porta a raggiungere obiettivi non solo di numeri. Quando si raggiunge il successo significa che abbiamo avuto passione, ma occorre avere pazienza.
Anche Roberta Bianco di Deloitte Digital pensa che la passione sia indispensabile, ma l’eccessiva velocità spesso richiesta sul lavoro può creare problemi. È quindi necessario saper decelerare, quando necessario.
Secondo Stefano Basile di Sisal bisogna essere protagonisti nel senso migliore del termine per trasformare i processi in prima persona. Un altro aspetto è la resilienza che è utile, ma non sempre necessaria. A volte bisogna infatti essere capaci di rompere per ricostruire, avere il coraggio di rischiare e anche sbagliare.
“In questo contesto, il leader moderno deve essere meno boss e più coach, capace di creare collaborazione – ha detto Alessandro Pucci di Sogei – La scelta di essere un collaboratore è necessaria ed è il contrario del creative killer, il capo che cerca sempre il colpevole e controlla, invece di mettere le persone nella migliore situazione per esprimersi”.
Un cambiamento epocale
Roberto Verganti del Politecnico di Milano è partito da una notizia che lo ha colpito molto: un dipinto creato dall’intelligenza artificiale ha vinto un concorso d’arte in Colorado. “Siamo di fronte a un cambiamento epocale e mi chiedo cosa cambierà nei prossimi anni, come l’AI potrà contribuire alla creatività – ha detto – È difficile rispondere perché l’evoluzione è molto rapida e il cambiamento è sbalorditivo perché cambia l’interfaccia del linguaggio. Questo significa che oggi anche chi non sa disegnare può dipingere e chi non sa suonare può creare musica. Si aprono porte nuove e non è vero che spariscono i creativi, ma ne nascono di nuovi”.
In passato, ad esempio, l’invenzione della fotografia fece pensare che non ci sarebbero stati più pittori, mentre nacquero nuovi modi di dipingere che però all’inizio non vennero capiti proprio perché innovativi rispetto agli schemi abituali.
Gli esempi dei Pink Floyd e di Peter Gabriel
Oggi la macchina non rischia quindi di prendere il nostro posto? “La domanda giusta non è questa, ma piuttosto chi sarà il prossimo ‘creatore’ – ha risposto Verganti – Ciò che è nuovo disorienta sempre, non viene capito da chi è abituato a pensare con i paradigmi del passato. Come nel caso degli impressionisti, quando diversi anni fa i Pink Floyd andarono per la prima volta alla BBC un famoso presentatore, esperto di musica, li criticò in modo aspro. In realtà, la band – che in seguito ha avuto un incredibile successo – attingeva al progresso tecnologico con nuovi suoni che chi era legato ai vecchi schemi non capiva”.
Questo è il rischio anche oggi: non riuscire a riconoscere i nuovi talenti, che hanno caratteristiche diverse da quelle a cui siamo abituati. La tecnologia non deve sostituire l’uomo, va usata per essere innovativi.
“Un altro esempio musicale è Peter Gabriel, che con l’avvento dell’elettronica negli anni ’80 ebbe l’idea di usare la nuova tecnologia per reinventare il modo di fare musica ed elevarla – ha concluso Verganti – Quando arriva un’innovazione tecnologica spesso si ha la tentazione di usarla al posto dell’uomo o si ha paura possa sostituirlo. Con l’arrivo delle drum machine e i suoni campionati negli anni ’80 qualcuno disse, ad esempio, che sarebbero spariti i batteristi. Niente di più sbagliato se, come nel caso di Gabriel, si ha un approccio giusto, che mira a cambiare e migliorare quello che si faceva prima, mettendo la tecnologia al servizio dell’uomo”.
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