07 02 2023
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“Così non schwa. Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo”. Questo è il titolo del libro di Andrea De Benedetti, che è stato presentato nei giorni scorsi alla Libreria Claudiana di Milano.
“Il libro nasce dal dibattito sullo schwa, che non tiene in considerazione alcuni limiti – ha spiegato l’autore – Mossi da buone intenzioni si preferisce guardare solo al lato inclusivo che però è poco efficace e, per paradosso, a volte addirittura esclusivo”.
Lo schwa: pro e contro
Lo schwa è un simbolo dell’alfabeto fonetico sperimentato da alcuni come soluzione all’uso del maschile esteso a tutti, che negli ultimi anni è stato visto come un approccio sessista, da superare.
Secondo De Benedetti, nell’uso dello schwa ci sono vantaggi e svantaggi, ma questi ultimi sono maggiori perché alla fine si finisce per contraddire gli stessi principi di partenza. Si riduce, infatti, il linguaggio a una pura questione espressiva, a scapito della dimensione comunicativa e di quella pragmatico-testuale. In questo modo si rivela un atteggiamento moralmente ricattatorio e al tempo stesso elitista da parte di chi, in nome dell’inclusività, rischia di compromettere gravemente l’accessibilità e la funzionalità della lingua.
“Nella lingua italiana abbiamo una desinenza per il maschile e una per il femminile – ha spiegato De Benedetti – È un sistema complesso valido anche per participi, pronomi e articoli, già difficile per gli stranieri che devono imparare. L’idea di introdurre lo schwa (o altre soluzioni come gli asterischi) complica ulteriormente il sistema e introduce anche il neutro che esisteva nel latino, ma si è perso nell’italiano”.
“Così si fa un passo indietro rispetto all’evoluzione linguistica – ha proseguito De Benedetti – Si crea una complicazione in più per gli stranieri, ma il problema si pone anche per gli italiani, che devono riprogrammare il ‘software’ su cui sono stati impostati. In sostanza, l’italiano con lo schwa non è più la stessa lingua e i costi sopravanzano i benefici”.
Le persone dietro il linguaggio
Di altro parere è Daniela Di Carlo della Chiesa Valdese di Milano. “Il linguaggio permette di rendere visibile che non esiste un’unica narrazione della storia, ma tante narrazioni quanti soggetti esistono – ha detto – La lingua è al servizio dell’umanità nel momento in cui riesce a dare dignità a coloro che vogliono essere ascoltati”.
De Benedetti ha replicato che la lingua deve essere uno strumento al servizio della comunità per mettere in relazione le persone, più che per mettere in evidenza le categorie soggettive.
“Se ognuno ha diritto a usare una parola per definire sé stesso a quel punto la lingua perde il suo significato e anche la sua ‘maneggiabilità’ – ha detto – Ci sono istanze legittime, ma una lingua non funziona così, altrimenti diventa un insieme di dialetti infiniti. Non si può pensare a un italiano completamente neutralizzato come alcuni chiedono. È un’illusione credere sia sufficiente cambiare delle desinenze per cambiare la situazione delle persone. C’è un discrimine sessista della lingua che va combattuto, ma riguarda i significati e non i significanti”.
“Le proposte di cambiamento linguistico vengono da persone concrete a cui occorre dare una risposta – ha spiegato Daniela Di Carlo – Se qualcuno non si sente rappresentato con un certo tipo di linguaggio bisogna partire da quella esigenza. Dietro il linguaggio ci sono persone che chiedono di sentirsi viste”.
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