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06 06 2024

I benefici economici della cultura inclusiva

“La diversità è un fatto e l’inclusione è una scelta. La cultura inclusiva è equa ed efficiente, è collegata a crescita economica, performance delle imprese. E anche a benessere individuale, reputazione”.

Così Paola Profeta, professoressa ordinaria di Scienza delle Finanze all’Università Bocconi, ha sintetizzato un concetto fondamentale e a volte trascurato: l’inclusione non solo è giusta, ma conviene.

Lo ha fatto nell’ambito dell’evento “Inclusività competitiva”, organizzato da Eccellenze d’Impresa a Palazzo Mezzanotte di Milano.

Le sfide da affrontare

Secondo Paola Profeta le sfide del contesto sono:

  • parità di genere;
  • invecchiamento della popolazione;
  • guerra dei talenti;
  • intelligenza artificiale.

“Nessun paese al mondo ha raggiunto la parità di genere – ha sottolineato – L’Italia è solo al 79esimo posto su 146 e addirittura al 104esimo se si guarda la sfera economica. Abbiamo un tasso di occupazione femminile basso, differenze salariali, child penalty, glass ceiling, ritardi culturali. Eppure, entro il 2050 promuovere la parità di genere in Europa aumenterebbe il Pil pro-capite EU dal 6,1 al 9,6%, e solo in Italia del 12%”.

I vantaggi di una leadership bilanciata

I benefici di una leadership bilanciata sono attrarre talenti, creare incentivi, migliorare la qualità, la selezione e le performance delle aziende, permettere una crescita sostenibile e avere un’agenda di decisione allargata.

Ha come caratteristiche avversione al rischio, concorrenza moderata, negoziazione, altruismo e orizzonte temporale lungo.

Anche il tema dell’invecchiamento della popolazione è importante per l’inclusività. “Una popolazione lavorativa formata da più generazioni richiede inclusione – ha commentato Paola Profeta – In futuro, ci sarà un uso sempre più avanzato della tecnologia, un’aspettativa di flessibilità lavorativa e work-life balance”.

Come essere davvero inclusivi

Come si realizza l’inclusione?

  • tramite buone pratiche;
  • grazie a una leadership inclusiva;
  • eliminando bias e stereotipi.

Alcune buone pratiche sono:

  • attirare i talenti (uso di linguaggio inclusivo, nessuna discriminazione nelle selezioni);
  • sviluppare i talenti (training, bonus collegati al raggiungimento di obiettivi DEI);
  • trattenere i talenti (favorire lavoro flessibile, offrire congedi di maternità e paternità paritari).

Bisogna poi costruire una leadership inclusiva che:

  • abbracci diverse prospettive;
  • valorizzi le esperienze e i valori di tutti;
  • ascolti;
  • dialoghi;
  • usi un linguaggio inclusivo:
  • coinvolga.

“La leadership inclusiva è collegata alla soddisfazione delle persone e aumenta la retention – ha detto ancora Paola Profetta – Occorre poi rimuovere i bias di genere come, ad esempio, l’associazione implicita uomo-carriera e donna-famiglia. Lo stesso vale anche per l’età, dove a volte si associa positività a un volto giovane e negatività a uno anziano”.

Il ruolo dell’AI

E l’AI? È anche questa una sfida. Può essere un bias come può invece aiutare a personalizzare le piattaforme di apprendimento, sviluppare strumenti di comunicazione collaborativi, migliorare la gestione dei talenti e sperimentare training virtuali.

“Una leadership inclusiva e buone pratiche manageriali possono contribuire alla cultura aziendale inclusiva, che è un obiettivo fondamentale della nostra economia”, ha concluso Paola Profeta.

L’inclusività come fattore di trasformazione

Luigi Consiglio, presidente di Eccellenze d’Impresa, ha ribadito che oggi l’inclusività è uno dei fattori di competitività dell’imprenditore italiano.

“Il nostro stile manageriale è fatto di inclusione – ha detto – Il rischio è di classificare la DEI come una ‘tassa’ da pagare, mentre invece è un fattore di trasformazione che permette di avere aziende in grado di crescere nel mondo”.

Anche Chiara Lupi, direttrice di Editoriale Este, ha detto che l’inclusione non è qualcosa nice to have, ma un elemento decisivo per aumentare la produttività delle aziende. Ci vogliono, però, strumenti per un upgrade culturale.

L’importanza della reputazione

Per Luciana De Laurentiis, Head of Corporate Culture & Inclusion di Fastweb, occorre una cultura diffusa di accoglienza delle differenze, non solo di genere. È poi importante considerare che la reputazione di un’azienda si rafforza attraverso il contributo delle persone che lavorano al suo interno.

“Le persone diventano testimonial in prima persona del valore e della cultura inclusiva dell’azienda per cui lavorano – ha detto – Bisogna partire non dalla convinzione, ma dall’ascolto per costruire una vera inclusione. E passare poi ad iniziative concrete, In Fastweb, ad esempio, ogni anno una persona può dedicare cinque giorni di lavoro ad attività di volontariato”.

Secondo Laura Fedeli, Head of Advisory di Valore D, la diversità è complessa, ma crea valore nel lungo termine. I leader devono comprendere il valore competitivo di questi temi e comportarsi di conseguenza.

Il Diversity Brand Index 2024

 Emanuele Acconciamessa di Focus Management ha presentato i risultati del Diversity Brand Index 2024, che ha preso in considerazione un campione di 1.070 persone.

“I brand citati come inclusivi sono stati 395, in diminuzione rispetto al passato – ha detto – Questo significa che il mercato oggi è più attento ad aspetti come la coerenza”.

Per settori, i Top 50 brand si dividono in:

  • retail (24%);
  • fashion (22%);
  • healthcare e wellbeing (10%);
  • IT (8%).

Tra la popolazione italiana, il 28% può essere considerata impegnata su queste tematiche e il 15,2% coinvolta.

“Il messaggio inclusivo genera passaparola, ma deve essere fondamentale la trasparenza – ha spiegato – Negli ultimi tempi si è rafforzato l’atteggiamento critico nei confronti dei brand non inclusivi”.

I rischi di chi non prende posizione

Secondo lo studio:

  • sette persone su dieci consigliano brand inclusivi;
  • otto persone su dieci parlano male di brand considerati non inclusivi;
  • sei persone su dieci parlano male anche di brand che non prendono posizione.

“Colpisce molto soprattutto l’ultimo dato – ha detto Acconciamessa – Il mercato penalizza, infatti, anche i brand neutri”.

 Francesca Vecchioni, presidentessa di Fondazione Diversity, ha ricordato tre regole:

  • break the bias (impariamo a disimparare e abbracciamo questo valore in ogni step del percorso di ideazione di nuove iniziative);
  • make yourself uncomfortable (bisogna rompere la routine, pensare a iniziative strategiche per il mercato finale. La strada più comoda non è mai la migliore per l’inclusione);
  • be leaders and involve the supply chain (i brand hanno il dovere di chiedere di più e aiutare a fare meglio. Ogni supplier deve essere preparato all’inclusione).

L’esperienza di Progetto Quid

Anna Fiscale, fondatrice di Progetto Quid, ha raccontato come è nata un’attività dedicata a dare opportunità a donne vittime di violenza, persone fragili che hanno vissuto esperienze difficili.

“L’idea è nata nel 2015 per ricavare bellezza da tessuti di rimanenza, quando ancora si parlava poco di sostenibilità – ha raccontato – Oggi abbiamo un’azienda con 160 persone, ci cui il 90% donne nel 70% dei casi con un passato di dipendenza, carcerazione, prostituzione”.

Progetto Quid collabora con brand del lusso e della Gdo come Dolce e Gabbana, Calzedonia, Ikea, che lo sceglie come partner etico capace di veicolare messaggi di inclusione.

“Bisogna sottolineare un aspetto: non siamo una ong, ma un’azienda redditizia, anche se con caratteristiche particolari – ha concluso Anna Fiscale – Al nostro interno abbiamo ad esempio un Ufficio Welfare, che aiuta le persone a risolvere vari problemi burocratici, e anche una psicologa disponibile una volta alla settimana per chi ne fa richiesta. Abbiamo ‘contaminato’ in modo positivo il territorio, in cui siamo ben integrati perché diamo lavoro, offriamo opportunità con un taglio sociale e allo stesso tempo contribuiamo allo sviluppo dell’economia locale”.

 

 

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