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16 02 2024

Diversity Brand Summit, ricominciare per iniziare

“Tabula rasa, l’unico modo per iniziare è ricominciare”. Questo è stato il titolo del Diversity Brand Summit 2024 che si è svolto allo Spazio Base di Milano.

L’inclusione come mezzo

Francesca Vecchioni, della Fondazione Diversity, ha esordito sottolineando che l’esperienza dell’esclusione si vive in molti modi. “Il mezzo migliore per arrivare all’inclusione non è usarla come fine, ma come mezzo per arrivare ai nostri obiettivi – ha spiegato – Ogni volta che si vuole rendere dei prodotti inclusivi si toglie o aggiunge qualcosa rispetto a come sono stati pensati in origine. È come se si dovesse risolvere un problema che si era generato prima”.

“Accade così che le persone si sentono un problema – ha proseguito – Invece il problema siamo noi che non pensiamo certi processi. Occorre la tabula rasa, fare un passo indietro come quello dell’atleta che prende la rincorsa prima di spiccare il volo. Il valore dell’inclusione è riuscire a vedere una platea allargata e ridisegnare un mondo reale con discorsi reali”.

Tecnologia e gender gap

Elita Schillaci di ILHM Advanced Studies ha spiegato che nel mondo dell’innovazione tecnologica, nella Silicon Valley, il gender gap tende addirittura ad aumentare.

“Con l’AI il tema delle discriminazioni e dei bias è destinato ad aumentare – ha detto – Basti pensare che ci sono ben 235 milioni di donne in meno rispetto agli uomini che hanno accesso a Internet. Gli algoritmi tendono poi a stratificarsi su di loro. Sono quindi necessarie strategie di innovazione radicale nelle aziende e bisogna pensare all’empowerment. Occorre lavorare su noi stesse e ricordarsi che la forma più sostenibile di competizione è la condivisione”.

Ripensare il lavoro

La sociologa e scrittrice Francesca Coin ha posto una domanda: le aziende che comunicano all’esterno l’impegno DEI sono coerenti al loro interno? La domanda è stata una premessa per affrontare il problema della salute mentale sui posti di lavoro.

Secondo il Gallupp Poll 2023, nel mondo, solo il 23% delle persone è soddisfatto di dove lavora e in Italia il dato scende al 5%.

“La maggior parte delle persone trascorre il tempo in azienda pensando di andarsene e questo incide negativamente sulla loro attività, fa perdere il 9% mondiale di Gdp – ha spiegato – Le imprese chiedono alle persone di condividere i loro valori, ma al loro interno solo il 33% è allineato. Nel frattempo, aumentano le dimissioni: solo l’anno scorso sono state 50 milioni negli Usa e due milioni in Italia, con il risultato che in alcuni settori c’è carenza di personale”.

Uno studio condotto dalla Cisl Lombardia ha cercato di approfondire le motivazioni di chi lascia un’azienda. Queste sono state le risposte:

  • eccessivo stress correlato con il lavoro (36%);
  • clima aziendale tossico (34,9%);
  • migliore remunerazione (29,5%);
  • necessità di conciliazione vita/lavoro (26,2%).

Per clima aziendale tossico si intende soprattutto ruoli, mansioni e obiettivi poco chiari, scarsa comunicazione, pettegolezzi e bullismo, conflitti irrisolti, mancanza di riconoscimento, promesse non mantenute e leader inadeguati.

Il tessuto della “organizzazione nascosta” è quindi impregnato di emozioni spesso negative: ansia, rabbia, stress.

Cosa fare? “Bisogna ripensare il lavoro – risposto Francesca Coin – Occorre lasciare maggiore autonomia alle persone, dare i giusti riconoscimenti professionali economici e sociali, non interrompere la comunicazione perché si pensa sempre all’efficienza, ma quasi mai a come si sentono le persone”.

I vantaggi del brand purpose inclusivo

Sandro Castaldi dell’Università Bocconi ha detto che il brand purpose è un concetto importante, la ragion d’essere della marca. Il business seve quindi essere una conseguenza del brand purpose.

“Il ruolo sociale della marca deve essere voluto, mai dovuto, e sostenuto, difeso senza compromessi – ha detto – Essere inclusivi è uno dei principali purpose e la sostenibilità deve essere soprattutto sociale”.

I vantaggi di un brand purpose inclusivo sono:

  • engagement;
  • loyalty;
  • conversion.

“Questo porta ricavi più elevati, costi più bassi e profittabilità per l’impresa – ha spiegato Castaldi – Quindi il brand purpose conviene, ma deve essere supportato da azioni concrete e coerenti. Oggi alle marche si chiede un impegno autentico e tangibile per affrontare le sfide sociali urgenti. Le persone cercano brand di cui fidarsi”.

L’importanza di conquistare la fiducia

La fiducia nei brand inclusivi nasce da:

  • esperienza pregressa e durata della relazione;
  • capacità di mantenere le promesse;
  • competenze sul tema;
  • assenza di opportunismo e trasparenza;
  • valori della marca;
  • coerenza nel tempo.

Gli stadi della fiducia nei brand inclusivi sono:

  • razionale, basato sul calcolo;
  • knowledge based;
  • valoriale o identificativo.

In sintesi, bisogna:

  • includere a tutti gli effetti un brand purpose che ha bisogno di concretezza per fare la differenza;
  • il purpose senza azione è una mera dichiarazione di intenti, poco rilevante per il mercato di riferimento;
  • il primo driver della fiducia risiede nella capacità dei brand di mantenere le promesse nel tempo.

Diversity Brand Index 2024

Emanuele Acconciamessa di Focus Management ha presentato il Diversity Brand Index, che misura l legame tra la capacità dei brand di parlare di inclusione al mercato finale e l’impatto di questo impegno sulle scelte di acquisto. La survey ha preso in considerazione 1.070 persone.

È emerso, tra l’altro, che oggi diminuiscono le aziende in gradi emergere come Top of mind e il mercato è sempre più selettivo, in grado valutare la bontà dei brand in termini di inclusione.

In generale, è arrivata una conferma di quanto le pratiche inclusive sui temi di genere, etnia, LGBT+, età, status socioeconomico, disabilità, religione e credo, aspetto fisico (le otto aree della diversity su cui si concentra la ricerca) impattino positivamente sulle aziende sia in termini di reputazione e di fiducia da parte del mercato sia in termini economici, grazie a un passaparola positivo che traina i ricavi.

Tra i primi 50 brand percepiti dal mercato come più inclusivi, il retail resta il segmento più ampio (stabile al 24% complessivo), mentre si è fermata la progressione delle marche dell’Apparel & Luxury goods (stabili al 22%, partendo dal 6% di quattro anni fa). Seguono le imprese dell’Healthcare & Wellbeing con il 10% seguite dall’Information Technology con l’8%.

Il brand activism è un’aspettativa diffusa

Amazon, Barbie, Fastweb, Ferrovie dello Stato Italiane, H&M, Ikea, PayPal, Sky, Spotify e Tim sono le marche che hanno presentato i progetti che compongono la top 10 del Diversity Brand Index per la loro capacità di lavorare concretamente sulla DEI, impattando anche sulla percezione di consumatrici e consumatori. Tim è il vincitore assoluto e Paypal quello digitale.

“Il mercato penalizza anche i brand ‘neutrali’, mentre il brand activism è un’aspettativa diffusa – ha concluso Acconciamessa – Il Top of Mind sull’inclusione si restringe, servono coerenza, concretezza e continuità, capacità di essere brand inclusivi memorabili. Si fortificano le percezioni positive nei confronti della diversità e tre persone su quattro scelgono con convinzione brand inclusivi”.

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