22 10 2020
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Qual è oggi il senso della marca per le imprese? A questa domanda ha provato a rispondere il convegno “Branding e-volution”, durante cui sono stati presentati i risultati di uno studio nato dalla collaborazione tra Upa (Utenti Pubblicità Associati) e la School of Management del Politecnico di Milano.
“Dai risultati della ricerca si percepisce discontinuità a livello generazionale: i più giovani hanno un approccio alla marca più fluido, meno continuativo – ha detto Nicola Spiller del Politecnico di Milano – Per conquistarli occorre un approccio più emozionale in termini di potere evocativo in grado di stimolare le relazioni sociali”.
Spiller ha spiegato il brand nella società della comunicazione è un sistema di valori, simboli e significati a cui il consumatore aderisce partecipando. Oggi i consumatori desiderano essere coinvolti nella definizione dei valori della marca.
E qual è il ruolo della brand equity per la performance di business? Dallo studio emerge che l’82% degli intervistati ha dichiarato che il top management ha una forte consapevolezza della brand equity e il 57% considera il livello di preparazione in materia adeguato. Per il 65% l’importanza dell’equity sulla marca è la creazione del valore futuro e l’aumento della percezione della qualità del prodotto, mentre per il 52% è la riduzione del prezzo.
Tra i player della comunicazione il 65% ritiene che la brand equity sia importante per i loro clienti.
Investimenti pubblicitari: obiettivi di breve periodo
Alberto Vivardelli di Upa è intervenuto sul tema degli investimenti in brand e performance. Il 43% di chi opera nell’advertising ritiene che negli ultimi tre anni i budget pubblicitari abbiano virato su obiettivi di breve periodo. E tra i player della comunicazione non adv la percentuale di chi ha rilevato investimenti soprattutto nel breve termine sale al 70%.
Nel mondo della pubblicità, la previsione è che nei prossimi tre anni la tendenza rimarrà invariata. Quali sono le barriere agli investimenti nel lungo periodo? Le risposte prevalenti sono state la mancanza di modelli econometrici (64%) e il forte focus su performance di business di breve termine (47%).
Negli ultimi tre anni si è comunque assistito all’aumento degli investimenti dedicati alla misurazione del brand.
Per quanto riguarda il ruolo dei mezzi, nella sponsorizzazione la quasi totalità degli obiettivi sono di branding, mentre per la sales activation prevalgono search, direct e-mail e marketing/sms. Più equilibrati sono gli obiettivi di video non social, eventi e tv on demand.
Il ruolo delle piattaforme digitali globali
Lo studio ha approfondito anche l’impatto sulla marca delle piattaforme digitali globali. Per chi opera nella pubblicità si tratta soprattutto di un’opportunità, ma altri ci trovano una minaccia.
Il 91% ritiene che le piattaforme digital consentono di accedere a audience profilate e per l’89% a pubblici ampi. Esiste però anche un 61% che le vede come delle minacce alla brand equity perché mettono sullo stesso piano marche forti e secondarie. Per il 49% sono caratterizzate da contenuti non protetti in termini di brand safety.
Anche il contesto editoriale rimane importante. Per il 70% occorre coerenza del contesto editoriale rispetto al valore della marca, per il 55% capacità di profilazione dell’audience, per il 53% conta la qualità della produzione del contenuto editoriale e per il 49% le dimensioni dell’audience.
“La marca sta assumendo nuovi ruoli – ha concluso Vivardelli – In futuro branding e performance diventeranno due facce della stessa medaglia e in questo contesto il ruolo strategico dei mezzi dovrà evolvere in risposta al mercato integrale”.
Il digitale: opportunità e rischi
Secondo Lorenzo Sassoli de Bianchi, presidente di Upa, siamo in una fase di turbolenza in cui tutto cambia velocemente e ci sono grandi trasformazioni da affrontare.
“Oggi il digitale è talmente pervasivo che per chi lavora nell’advertising e nel marketing conoscerne le dinamiche rientra tra le necessità – ha detto Sassoli de Bianchi – Il digitale racchiude molte opportunità, ma anche dei rischi per via della poca trasparenza e della scarsa regolamentazione, ma il futuro è questo”.
Sassoli de Bianchi ha portato tre esempi di marche che hanno trovato nuovi percorsi tramite il digitale:
- Yoox, che è riuscita nella difficile impresa di vendere la moda online;
- Moncler, che ha posizionato i suoi siti su Internet come degli specchi dei negozi e ha dato ai clienti la sensazione di poter scegliere i modelli da lanciare sul mercato;
- Heineken, che ha creato una grande comunità di fan capaci di condividere il rito collettivo della birra.
“Dalla ricerca emerge che le aziende sono convinte che il valore della marca sia indispensabile per renderle più profittevoli e longeve – ha concluso de Bianchi – E per quanto riguarda le previsioni del mercato pubblicitario, da una survey tra i nostri associati è emerso che quest’anno gli investimenti chiuderanno con un calo del 12%”.
La marca come leva che agisce sulle decisioni d’acquisto
Giuliano Noci del Politecnico di Milano si è soffermato sull’eccesiva attenzione dedicata al breve periodo, confermata anche da ricerche a livello internazionale.
“La comunità manageriale si trova ad affrontare una forte complessità – ha detto – In questo contesto la marca è ancora fondamentale perché è una leva che agisce sulla mente umana, è un asset in grado di semplificare la scelta di chi deve prendere decisioni d’acquisto, è il modo per uscire da una competizione basata solo sul prezzo, crea una barriera all’entrata ed è uno strumento importante nella costruzione di una strategia di marketing e comunicazione di un’azienda”.
Secondo Noci, la marca deve però vivere di elementi nuovi. Prima era soprattutto storytelling, oggi è il combinato disposto di storytelling e marca come sistema, architettura di interazioni. Un esempio è Nike: non è solo un brand che fa apparire atletici, ma per essere atletici.
“La marca è anche quello che l’individuo vive – ha concluso Noci – In futuro marketing e comunicazione dovranno lavorare sempre di più in modo integrato per raggiungere obiettivi comuni”.
Parola d’ordine: investire in misurazione del brand
“Il 68% delle aziende fa almeno una volta all’anno ricerche in misurazione del brand. A farle sono soprattutto aziende che operano nei servizi (88%) e nel retail (72%). Da una risposta su tre si evince che nell’ultimo anno gli investimenti sono aumentati, mentre per un’azienda su due sono rimasti costanti”. Lo ha detto Nicola Spiller del Politecnico di Milano in occasione della seconda parte del convegno “Branding e-volution”, durante la presentazione di uno studio condotto dal Politecnico di Milano e da Upa (Utenti pubblicità associati).
Di opinione diversa dalle aziende sono però i player della comunicazione. Come ha spiegato Spiller, tra questi intervistati solo il 20% ritiene che gli investimenti siano aumentati e per il 45% sono rimasti costanti.
Dalla ricerca emerge che nelle imprese i principali strumenti di misurazione delle iniziative di marketing e comunicazione sono:
- brand tracking (75%);
- analytics digitali (67%);
- pre/post test (58%);
- marketing mix model/modelli econometrici (51%);
- modelli di attribuzione basati su regole (19%).
I player della comunicazione percepiscono invece una prevalenza di analytics digitali (52%), davanti a brand tracking (40%) e pre/post test (39%).
La trasparenza è sempre più strategica
Per quanto concerne la media transparency, gli strumenti che le imprese considerano più rilevanti sono:
- brand safety (68%);
- viewability (56%);
- trasparenza del costo relativo agli spazi media acquistati (50%).
“Bisogna migliorare la trasparenza sulle modalità di raccolta del dato”, ha concluso Spiller.
Alberto Vivaldelli di Upa ha spiegato che il 71% delle aziende dichiara di utilizzare sistemi di precision marketing, ma nel settore retail la percentuale scende al 45%. Le iniziative con obiettivi di sales activation sono il 58%, quelle con obiettivi di branding il 15%. Il 58% delle imprese ha dichiarato di investire in iniziative di precision marketing e, tra queste, l’85% pensa di aumentare in futuro questo genere di investimenti.
Sotto una certa soglia numerica di target scelti, lavorare in precision marketing è inefficiente? A questa domanda ha risposto di sì il 46% degli advertiser intervistati e il 44% dei player della comunicazione.
Per quanto riguarda il commitment aziendale per la gestione dei dati, il 77% utilizza dati di prima parte per iniziative di digital advertising. Il 55% percepisce come affidabili i dati degli istituti di ricerca, il 42% quelli delle proprie agenzie media, il 38% i dati di business partner, il 23% i dati dei provider e il 16% quelli dei publisher.
Il 32% del campione intervistato utilizza una Data Management Platform esterna e il 31% una interna, mentre il 21% non ne utilizza nessuna e nel 16% dei casi è in corso una valutazione. Nelle aziende del settore retail l’utilizzo è ancora minore.
Dalla ricerca emerge anche che i Data Scientist sono coinvolti a livello operativo nelle aziende nel 40% dei casi.
“In conclusione, la necessità di dimostrare il valore del brand per il business è fondamentale – ha detto Vivaldelli – Oggi c’è spazio per la nascita e l’affermazione di nuove metriche digitali con una correlazione più solida agli obiettivi di branding. Un altro aspetto importante è che il precision marketing è qui per restare e crescere anche per obiettivi di lungo periodo, ma va gestito in modo strategico. Intanto le aziende si stanno strutturando per il data driven marketing, ma il ruolo degli operatori rimarrà fondamentale. Infine, la ‘battaglia dei dati’ passa dai tecnicismi al valore del business”.
Dati e algoritmi al servizio dell’uomo
Giuliano Noci del Politecnico di Milano ha sottolineato che anche quando si parla di dati la rilevanza della marca è importante. Questo perché per avere dati ci vuole qualcuno che li fornisca e questo avviene se c’è fiducia verso un brand.
“I dati e gli algoritmi sono molto utili, ma devono sempre essere visti al servizio dell’uomo – ha detto Noci – Bisogna quindi evitare di diventare degli integralisti dell’intelligenza artificiale”.
Vittorio Meloni di Upa ha parlato della trasparenza dei media. “È un concetto importante: l’84% dei grandi advertiser vanno verso modelli di gestione del programmatic in-house o ibridi – ha detto – Oggi esiste una forte dispersione degli investimenti nella filiera del programmatic, diventano sempre più importanti concetti come la brand safety, la blockchain e bisogna essere pronti a raccogliere una nuova sfida nella gestione e misurazione dei dati”.
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